Persi in un bicchier d’acqua? Come il growth mindset può aiutare l’employability

La settimana scorsa sui social girava un post divenuto virale in poco tempo e che diceva: creati una vita da cui non ti serva prendere una vacanza. È capitato a tutti e tutte di trovarsi in una situazione in cui capiamo che non stiamo bene e che tutto quello che stiamo facendo per uscirne, anziché portarci fuori dal problema, in realtà ci sta portando sempre più a fondo. Conosci l’espressione “perdersi in un bicchiere d’acqua”?

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Il nostro bicchiere d’acqua si crea da un’abitudine che abbiamo sin dall’infanzia. Quando c’è qualcosa che non va, infatti, siamo abituati e abituate a chiedere: perché? Ricercare la causa del problema ci mette nella stessa situazione di un esploratore o esploratrice che, al fine di cercare l’acqua, si porta sulla cima di una montagna. Per quanto, da lassù, la visuale potrà essere vasta, sarà pur sempre limitata al suo solo punto di vista. Allo stesso modo, quando ci troviamo a gestire situazioni complesse sul lavoro, dove ci sono altri soggetti oltre a noi e dove la struttura organizzativa ci impone determinati ruoli e posizioni, ricercare il perché delle cose può non portarci alla soluzione, ma sul fondo del bicchiere.

È necessario cambiare logica. Se proviamo a non cercare più il perché, a scendere dalla montagna e a cercare, per esempio, il come siamo arrivate in una certa situazione o il come tale situazione è composta e si struttura, potremo probabilmente notare aspetti sorprendenti di cui, dall’alto del nostro personale punto di vista, non ci eravamo mai accorte. Per esempio, potremmo scoprire che burnout e cali di motivazione, possono essere manifestazioni dell’obsolescenza delle competenze o dello skill gap presente nella nostra azienda; e, allora proporre percorsi di formazione per tutti i livelli dell’organizzazione è la scaletta che ci occorre per uscire dal bicchiere.

Cos’è il growth mindset e perché aiuta a migliorare l’occupabilità

Quello appena descritto, è un tipico esempio di growth mindset, cioè della convinzione che il nostro talento e le nostre competenze possono essere costantemente sviluppati ed espansi, grazie allo stimolo giusto. Nel caso appena citato, il cambio di prospettiva, dal perché al come. Nei primi anni 2000, la psicologa statunitense Carol Dweck, pubblicò Mindset, il testo in cui descriveva le differenze tra la forma mentis fixed e growth, a favore dei grandi benefici della seconda. 

La tesi della psicologa è che ogni persona può migliorare le proprie abilità, capacità e competenze, a partire dalla consapevolezza di poterlo fare. Il fixed mindset, al contrario, è la forma mentis di chi, invece crede, che con certe capacità si nasca e che una volta completata la formazione di base, o superata una certa età, non si possa più imparare: noi sappiamo, invece, che ci sono persone che, nonostante l’età o altre caratteristiche, sono sempre aperte al cambiamento, si chiamano perennials e sono coloro che hanno fatto del growth mindset il proprio stile di vita. Chi, infatti, ha un growth mindset, spinge se stesso o sé stessa ad andare oltre ed è consapevole dei limiti della propria prospettiva, e comfort zone, al punto che si spinge a superarli al fine di imparare sempre qualcosa di nuovo. Per tornare all’esempio di prima, la forma mentis fixed ci spinge a chiederci solo il perché delle cose; la growth, ci aiuta a metterci nei panni degli altri e a indagare anche il come, il chi, il quando.

uomo che guarda al binocolo in un campo di erba

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Il growth mindset per le organizzazioni

Dweck suggerisce che tali mindset sono degli individui tanto quanto delle organizzazioni. E che la forma mentis di un’organizzazione dà forma alla sua cultura, al suo modo di raccontarsi e di stare nel mondo. Di conseguenza, le imprese con un growth mindset, sono anche coloro che tendono ad avere ambienti più innovativi e dipendenti più motivati e con competenze più aggiornate. Come fare ad acquisire tale forma mentis? In primo luogo, suggerisce Dweck, l’organizzazione deve identificare il suo mindset attuale e le tendenze che lo caratterizzano; poi, in una seconda fase, deve creare delle opportunità per mettere alla prova tale sistema; e, infine, verificare costantemente ogni piccola trasformazione che ha portato quel cambiamento.

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Educarsi al cambiamento

Sappiamo che, però, il cambiamento è qualcosa che spaventa. Per crescere, però, è necessario divenire consapevoli della distanza tra ciò che siamo ora e come e dove vorremmo essere in futuro. Provare, quindi, a cambiare, senza aver paura di sbagliare: il che non significa che non si commetteranno errori, bensì, significa cambiare prospettiva e considerare la propria vulnerabilità come parte del gioco.

Un elemento essenziale del growth mindset è infatti la consapevolezza che può capitare di commettere errori. Se le persone della nostra organizzazione sanno che se commettono errori, verranno redarguite, accompagnare verso la formazione o verso un percorso che ne migliorare l’occupabilità, sarà molto duro, perché saranno sempre bloccate nell’esprimersi davvero; al contrario, se l’organizzazione è capace di costruire un ambiente di lavoro aperto, dove il cambiamento è parte integrante e il fallimento solo una cosa che può accadere, un’occasione da cui imparare, è molto più probabile che le persone inizieranno a imparare dai propri errori e così ad aggiornarsi anche spontaneamente. Imparare a guardare i problemi da un’altra prospettiva, aiuta a vedere le difficoltà e i bicchieri d’acqua in cui potremmo, accidentalmente perderci, come occasioni di crescita per migliorarsi e migliorare anche la propria occupabilità. 

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