Essere genitori e lavorare: si può?

Essere genitori e lavorare: si può? Nell’ultimo anno e mezzo la pandemia ha sconvolto il modo in cui abbiamo sempre pensato al lavoro, alla famiglia, alla scuola, forse alla nostra vita intera. Costretti allo smartworking, la conciliazione tra l’essere genitore ed essere anche parte attiva del mondo del lavoro è stata messa a dura prova. Se da un lato molti papà hanno potuto, per la prima volta, vivere con i propri figli insieme alle mamme, dall’altro moltissime donne sono state costrette ad abbandonare il lavoro perché prendersi cura dei più piccoli di casa si era reso necessario.

In questi giorni è stata presentata la proposta di legge che vorrebbe equiparare i congedi maternità e paternità: cinque mesi per tutti i genitori retribuiti al 100%. Un grande aiuto per le mamme, finalmente sgravate dalla gestione pressoché esclusiva del carico domestico e conseguenze benefiche anche per le famiglie intere e pure per le aziende. Delle difficoltà della pandemia, di questa nuova proposta, della situazione attuale e di come si può fare oggi per conciliare genitorialità e mondo del lavoro, abbiamo parlato con Donata Columbro, giornalista, imprenditrice, co-fondatrice di Dataninja e Dataninja school e mamma di due bambini, di 3 anni il primo e 1 mese il secondo, e Andrea Zanni, fondatore di Wikimedia Italia, bibliotecario digitale, a metà strada fra un informatico e un bibliotecario, e papà di un bimbo di due anni e mezzo.

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Perché un’intervista a due voci, innanzitutto?

Andrea: “Perché la genitorialità non è solo femminile. Anche se lo è ancora in prevalenza.”

Donata: “Mi sono chiesta perché ai miei soci che hanno figli nessuno chiede mai interventi su questo tema. Semplicemente perché non ne parlano pubblicamente. Probabilmente il fatto di rendere pubblica la nostra genitorialità, come professioniste, anche facendo notare le discriminazioni che subiamo nel mondo del lavoro, in qualche modo ci “condanna” a essere le uniche interlocutrici.”

Andrea: “È vero, Purtroppo siamo ancora lontani da una vera parità. Credo che sicuramente faccia bene parlare dei maschi come padri e delle gioie e dolori della paternità. Come delle mancanze e delle cose ancora da migliorare. Parlare ai e dei giovani padri allarga un immaginario. Le donne hanno il problema che la maternità viene spesso loro imposta, quasi come un destino fatale, ma ne discutono e la pensano già da giovanissime. I maschi non ci pensano finché non gli capita; certamente non con i propri pari da ragazzi. Solo, ma neanche tanto, con gli amici che sono appena diventati padri anche loro.”

Se oggi si vuole parlare di genitorialità e mondo del lavoro, il tema principale su cui ci si concentra è come conciliare le due cose, come se fossimo due fronte a due identità distinte, due vite parallele che non si toccano mai… pensiamo a Ursula Von der Leyen e alla sua dichiarazione di qualche settimana fa che ha fatto probabilmente venire i sensi di colpa a parecchie persone.  A che cosa non si sta guardando? 

Andrea: “Io sono il primo di sei figli, e per un certo periodo abbiamo avuto anche due fratelli in affido, quindi eravamo proprio in otto. Posso dire senza ombra di smentita che puoi tranquillamente avere otto figli e lavorare, ma devi avere qualcuno, nel caso di Von Der Leyen, uno staff di persone, che li tiene per te. È semplice matematica. Se puoi pagarti una tata per bimbo, una che si occupa da mangiare, una che si occupa della casa, una che li porta in giro, puoi fare tutti i figli che vuoi e lavorare a tempo pieno. È un modello però molto diverso di famiglia rispetto a quello in cui sono cresciuto o che mi potrei anche solo permettere. Per quanto Von Der Leyen sia sicuramente una di quelle super donne capaci di fare mille cose insieme, gestire uno stress infinito e lavorare tutto il tempo, non può dire una cosa del genere senza rendersi conto che lei è l’eccezione e non la regola. Sia come personalità che come capacità economiche. Per tornare sulla terra fra le persone normali, la genitorialità prende una quantità di ore infinita, soprattutto se passare del tempo con tuo figlio o figlia è un valore e una componente importante dell’educazione: questo toglie tempo e “valore” al lavoro stesso, alla persecuzione di una carriera, ma anche molto ad hobby e interessi vari. Mi pare del tutto naturale che il lavoro perda parte del tempo e delle energie del genitore: non sono certo risorse infinite.”

Donata: “Sono d’accordo con Andrea. Io cerco di non limitare le mie opportunità lavorative, ma questo comporta fare delle scelte e soprattutto affidarsi a servizi pubblici (il nido) o privati (tata o nidi privati). Risorse esterne che per molte famiglie non sono accessibili sia per carenza di strutture sia per disponibilità economica. Una cosa che contesto è il dare per scontato che se qualcuno deve rinunciare al lavoro quella deve essere la madre: dico sempre che l’equilibrio si raggiunge…litigando o comunque negoziando di continuo in famiglia. Ci sono condizioni esterne che possono limitarci, ma se non cominciamo da casa nostra a mettere in discussione lo status quo nemmeno la politica si accorgerà che il mondo è cambiato.”

famiglia che lavora a casa con fili

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Per raccontare fenomeni di questo tipo, spesso ci si affida ai dati, materia di cui sia Andrea, come informatico, sia Donata, come data humanizer, siete esperti. Solo che quelli su  genitorialità e mondo del lavoro risalgono al 2016, anno in cui circa 30mila donne con figli minori di tre anni hanno dato le dimissioni volontarie. Emerge una mancanza di attenzione che ha delle conseguenze, quali?

Andrea: “La mancanza di dati aggiornati, come sempre accade, non ci permette di avere una fotografia corretta di quello che sta accadendo adesso e quindi rende anche più difficile avere coscienza del fatto che le politiche a sostegno della genitorialità stiano funzionando o meno. Il cambiamento che dovrebbe accadere dovrebbe essere soprattutto culturale, ed è un cambiamento profondo: quanti padri conosciamo che lasciano il lavoro perché la mamma sta invece tornando a lavorare? Io nessuno. Solitamente i genitori tornano entrambi a lavorare, ma se qualcuno deve lasciare quasi sempre è la madre. La società si aspetta che lo faccia lei. I dati che avevo visto io mostravano che gli uomini dopo il primo figlio tendono a guadagnare più di prima, e le donne di meno. In un certo senso, avere un figlio ti fa percepire come più adulto, e questo aiuta in un contesto professionale. In maniera inspiegabile questo però vale solo per gli uomini.”

Oggi secondo l’ISTAT, più sono i figli, maggiore è il divario nei tassi d’occupazione femminile e maschile…

Donata: “Quello che questi dati non raccontano, oltre a non essere aggiornati, è la motivazione per cui molte donne lasciano il lavoro. Molto spesso non vogliono smettere di lavorare, ma farlo con altri ritmi, cosa che un contratto da dipendente spesso non permette, anche se spero che la pandemia abbia portato più flessibilità. Ho perso il conto delle madri-amiche che si sono licenziate dopo la maternità per diventare freelance. I padri si scontrano invece con una cultura che non accetta o non comprende la loro richiesta di essere più presenti in famiglia, bisogna essere molto motivati per portare avanti certe istanze, anche quando ne si ha pieno diritto come per i congedi di paternità facoltativi. Secondo me deve cambiare anche la cultura aziendale, pure nella raccolta dati. È normale sapere quante dipendenti hanno avuto figli perché “si contano” le maternità, ma perché non approfondire anche la presenza di padri e quindi mappare, raccogliere ed accogliere anche le loro esigenze?”

A cosa potrebbero essere più attente le aziende al rientro di una persona da un congedo conseguente la nascita di un figlio o di una figlia? 

Andrea: “Il nido aziendale è la prima cosa che mi viene in mente. Ma immagino anche una policy generosa per lasciare assentare la madre per l’allattamento o entrambi i genitori per le malattie dei figli, o la presenza di spazi per cui un genitore possa portare il proprio bambino a lavoro e allattarlo, dargli da mangiare, cambiarlo, farlo riposare, ecc. Quest’anno di pandemia mi ha aperto gli occhi su quanto il nido, l’asilo, la scuola, e così via, siano fondamentali per la nostra società, che è basata sul lavoro. Sono luoghi dove lasciamo i nostri figli per permetterci di lavorare. Pensare che una persona lavori bene da casa se deve anche tenere il proprio figlio di due anni è abbastanza folle. Nella mia esperienza c’è stata grande pazienza e comprensione da parte del mio datore di lavoro, ma so per certo che non è sempre così. Anche in questo caso, solitamente, si sacrifica la madre.”

Donata: “Sono d’accordo con Andrea. E, in più, come ho detto prima, l’azienda dovrebbe avere anche un’attenzione costante di raccolta dati interna per monitorare la situazione ed evitare gap nei dati e quindi disparità nel modo di affrontare la genitorialità dei e delle dipendenti. È importante che anche il sistema sociale in cui l’azienda e le persone inserite abbiano un’attenzione analoga. I servizi alle famiglie come il nido aziendale sono fondamentali, ma anche sostegno economico per un altro tipo di assistenza quando questa soluzione non è applicabile, per esempio quando si potrebbe voler optare per i nidi in famiglia, ma il bonus nido non viene erogato. In più, sarebbe auspicabile anche un investimento per aumentare il numero di consultori sul territorio, che in alcune regioni superano la soglia di 1 per 25mila abitanti (pochissimi) mentre sono un servizio fondamentale nei primi mesi dei bambini, non solo per la loro salute ma anche per quello che offrono ai genitori come sostegno post nascita (ascolto, percorsi condivisi con altre famiglie, corsi…)”

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Cosa può fare la differenza?

Andrea: “Conosco solo un paio di uomini che, tanti anni fa, decisero di lasciare il lavoro e occuparsi a tempo pieno dei figli. Sono davvero delle eccezioni. Se un ruolo maschile è ancora forte è quello di portare a casa i soldi; ma, sotto sotto, c’è soprattutto il fatto che un uomo difficilmente oggi è educato, culturalmente preparato, a occuparsi della casa e dei figli, non è ancora nell’immaginario né suo e né della società.”

In questo senso, forse, le aziende possono giocare un ruolo diverso?

Donata: “Quando lavoravo per Change.org mi aveva colpito il fatto che gli uomini potessero accedere alla paternità di quattro mesi pagata dall’azienda: questo di fatto escludeva che per scegliere di promuovere una persona si guardasse alla sua situazione familiare o al sesso, c’era sostanziale parità. E uno dei manager di San Francisco che conobbi all’epoca promuoveva questa scelta raccontando a tutti di aver fatto il giro del mondo durante i primi quattro mesi di suo figlio. Quest’anno ho anche fatto uno speech per Generali in occasione della Giornata internazionale della Donna e ho scoperto che nelle loro politiche di inclusione offrono un percorso per il rientro al lavoro a padri e madri. Molto avanti per la realtà italiana.”

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