Provate a pensare ai vostri sogni di bambini: per qualsiasi lavoro immaginavate di fare – e che poi forse non avete fatto – probabilmente l’idea che avevate in testa c’entrava con il raggiungere il successo, l’essere riconosciuti, il guidare delle persone. Con l’avere, cioè, dei “sottoposti”, come piace tanto dire in alcune aziende, o se vogliamo essere più “gentili”, gestire e avere la responsabilità di team.
Quello tratteggiato in pochissime parole è il concetto tradizionale di carriera con cui tutti, chi più chi meno (e forse tra i meno c’è chi appartiene alla Generazione Z), siamo cresciuti. E già, “crescere” di livello, ruolo, stipendio, è sempre stato qualcosa a cui tutti avrebbero dovuto aspirare e probabilmente abbiamo aspirato.
Sommario:
Come cambia il concetto di carriera (e perché)
Ma in un mondo in cui la vita lavorativa è fatta anche di scoperte, di cose che apprendi, di relazioni che costruisci, di benessere che – forse – conquisti, di work-life balance o work-life integration a cui strizzi continuamente l’occhio, di competenze che alleni, di altre che apprendi – con quella gioia legata alla novità che “colpisce” un po’ tutti -, di momenti in cui non sei in forma per i più svariati motivi, il concetto di carriera ascensionale non combacia più come prima.
Insieme alla scalata verso quel successo che forse non arriverà mai per come l’abbiamo immaginato, si fa sempre più strada un altro tipo di carriera che possiamo definire “orizzontale”. Poco ha a che fare con i job title, i ruoli e quell’etichetta “manager” che ci piace appiccicare ovunque.
Un percorso che, invece, mette davvero al centro le persone e che porta a roteare lo sguardo: se prima era solo verso l’organizzazione, ora si dirige sempre più verso il posto che le persone occupano dentro di essa e verso le loro interazioni. Di fatto, più importanti dei processi e degli strumenti.
Vediamo di capire meglio in cosa consiste la carriera orizzontale, perché è da valutare in azienda, perché gli e le HR dovrebbero prendere in considerazione di favorirla e infine come anche il business coaching può dare un’enorme mano.
Carriera orizzontale o verticale? Questo… è il problema
Il titolo di questo paragrafo ricorda il famoso dubbio amletico, ma è qualcosa che in azienda le persone vivono spesso e che può essere causa di frustrazione, insoddisfazione, poco coinvolgimento e tutto quello che normalmente gli HR cercano di portare verso tutt’altra direzione.
Cos’è la carriera verticale
Per carriera verticale, come sappiamo, infatti, si intende il fatto di entrare in un’azienda e conquistare man mano ruoli di maggiore importanza che comportano un aumento di responsabilità a cui fa il paio un aumento di stipendio. E spesso, ammettiamolo, anche un aumento del carico mentale e di lavoro.
Arrivare a un certo livello del proprio percorso personale, partendo dal “corretto” titolo di studio vuol dire, peraltro, che, se si cambia azienda, lo si fa non per andare indietro, ossia scendere dei gradini di quella scala, ma per per avere ancora più opportunità di salire.
…E perché non tutti la vogliono
Puntare sulla carriera verticale, quindi, è qualcosa che la maggioranza delle persone porta avanti, ma che non vale per tutti. E soprattutto che non tutti vogliono. A differenza di quanto erroneamente si crede, non tutti ambiscono a diventare manager né è necessario che tutti lo diventino. E il titolo di studio con cui hanno iniziato la loro carriera lavorativa, spesso diventa solo un piccolo punto di partenza che le porta verso altri mondi. Anche chi scrive questo pezzo lo sa bene: liceo classico + lettere moderne + master in formazione e media per fare la giornalista, ma mai avrei pensato di occuparmi anche di SEO, marketing ecc…
Ma torniamo a noi: un sondaggio di qualche anno fa, condotto da Careerbuilder negli Stati Uniti su 3500 lavoratori americani full time in diversi settori, evidenziava come solo il 34% di loro aspirasse a posizioni apicali, mentre il restante 66% diceva fermamente no.
Da ricerche più recenti, come quella condotta da Boston Consulting Group a inizio 2023, dal titolo “Why Leaders Can’t Let Up in Trasformations”, emerge come nel 2022 per alcune aziende i progetti di trasformazione e di business non siano andati come ci si aspettava, e questo proprio per via dei leader. Se la trasformazione è infatti ancora un imperativo per le aziende, la partecipazione da parte dei leader a progetti in tal senso è purtroppo scesa dal 53% del 2020 al 38% del 2022.
Un calo continuo di coinvolgimento che fa pensare, per l’appunto, che non tutti vogliano essere manager né si riconoscono, come tali, in ruoli da leader – due aspetti che, lo sappiamo, non sono certo la stessa cosa ma che spesso nelle aziende combaciano.
Come riporta poi il Sole 24Ore, nell’articolo a cura di Francesca Contardi, spesso le persone vengono promosse – perché di fatto si sono impegnate – senza avere quelle caratteristiche necessarie per poter guidare dei team. Non vuol dire che non siano brave, o che magari non siano leader nel loro piccolo, per qualche aspetto in particolare, ma non indossano i panni dei manager né tantomeno vorrebbero farlo.