Come strutturare una comunicazione accessibile

“Ciò che non rappresentiamo non esiste. Ciò che rappresentiamo male, rimane incastrato tra le grate del pregiudizio”, a dirlo è Alice Orrù copywriter e traduttrice tecnica con il pallino per il linguaggio inclusivo, che dal 2015, grazie al suo impegno nella community di WordPress.org, si occupa con passione di queste tematiche. A lei abbiamo chiesto cosa sta cambiando negli ultimi anni nella comunicazione aziendale, verso l’interno e verso l’esterno, e quali sono i punti a cui prestare attenzione quando comunichiamo e vogliamo che ciò che stiamo dicendo sia comprensibile al più largo numero di persone possibili e comprensivo delle differenze esistenti.

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Parole, immagini e rappresentazioni web: come sta cambiando negli ultimi anni?

Credo fermamente che qualsiasi argomento ostico possa diventare comprensibile, se spiegato bene, per questo ho creato la prima newsletter in italiano sulla comunicazione inclusiva e accessibile, si chiama Ojalá, e sono molto contenta che la comunicazione inclusiva stia prendendo piede anche in Italia. Nell’ultimo anno c’è stata un’esplosione di interesse per la diversity&inclusion nella comunicazione e un’attenzione crescente nei confronti delle parole che scegliamo per comunicare. È un cambiamento che nasce dai movimenti per i diritti e l’attivismo, come è stato prima anche negli USA. In tutte le società, sia su larga che su piccola scala, come può essere un’organizzazione o un’azienda, arriva un momento in cui bisogna scegliere un codice di comunicazione condiviso. Se è vero che ciò che non rappresentiamo non esiste e ciò che rappresentiamo male, rimane incastrato tra le grate del pregiudizio, è sempre più importante trovare un punto di incontro capace di mantenere la serenità nell’ambiente di lavoro, come anche nella società in generale. A maggior ragione se le persone che formano tali organizzazioni sociali appartengono a categorie differenti. 

Sono le persone a portare avanti questo cambiamento?

Io credo che i cambiamenti siano sempre portati avanti dalle persone. E sono sempre di più quelle che prestano attenzione alle tematiche della valorizzazione della diversità e dell’inclusione. Le aziende possono essere aperte all’ascolto, farsi le domande giuste coinvolgere le persone. Tuttavia, siamo comunque all’interno di un percorso. Per me, per noi che viviamo il nostro impegno in questo ambito, è difficile a volte uscire dalla propria bolla e rendersi conto che c’è ancora però una grandissima parte della popolazione che ha bisogno di essere introdotta a queste tematiche.

Prendiamo per esempio il caso dei femminili professionali, che molte donne per prime tendono a non considerare, pretendendo l’uso del maschile sovraesteso, dicendo: “Se mi chiami direttrice o direttora di orchestra mi sento offesa, chiamami direttore”. Ecco, a proposito di farsi le domande giuste, io mi chiederei: perché il femminile ti offende? Perché connoti negativamente alcune parole declinate al femminile, sindaca, avvocata, direttora, e altre no, maestra, infermiera, segretaria? Sono consapevolezze che vanno condivise e coltivate. Con il digitale questo è più facile, sono tante le persone che hanno iniziato a fare divulgazione su questi temi, sono convinta che il dibattito si allargherà per coinvolgere pian piano sempre più persone.

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Dal recruiting all’onboarding alla comunicazione interna: cosa sta cambiando nella comunicazione aziendale? 

Siamo responsabili delle scelte linguistiche che facciamo, delle parole che scegliamo di usare. In azienda, poiché è un contesto particolare e ristretto, i danni di un linguaggio non inclusivo, sono più evidenti. Una job position scritta in modo non accessibile, frena le candidature perché è difficile da leggere, perché le persone non si sentono rappresentate e perché è espressione di una cultura aziendale che non si cura delle persone e delle loro peculiarità.  È importante sottolineare che Il linguaggio inclusivo e accessibile va oltre le parole. È fatto anche di comportamenti e buone pratiche che permettono a tutte le persone di poter partecipare alla vita aziendale, usufruire di prodotti, servizi o di poter leggere quello che condividiamo sui social. 

L’insieme di buone pratiche per costruire contenuti web fruibili da chiunque rientra nel campo dell’accessibilità digitale. Nella sua definizione è ciò che permette a chiunque, comprese le persone con disabilità, di percepire, capire, navigare e interagire con Internet. Trovo molto significativo il motto di Microsoft “Solve for one, extend to many” perché sottolinea il fatto che ciascuno di noi ha abilità differenti e, allo stesso tempo, limiti diversi a queste stesse abilità. Scrivere una comunicazione accessibile significa costruire un contenuto capace di andare oltre questi limiti e quindi di risultare comprensibile, e comprensivo, sempre, per chiunque, a prescindere dalle sue abilità o appartenenze.

Speexx realizza progetti di formazione e valutazione linguistica blended a distanza per le aziende. Aiutiamo le grandi organizzazioni in tutto il mondo a incrementare la produttività attraverso il miglioramento delle competenze comunicative dei propri dipendenti.

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Come si scrive una comunicazione davvero accessibile? Facciamo insieme una sorta di check-list…

Scrivere in modo inclusivo non sempre basta. Anche le immagini e i metadati che accompagnano i nostri contenuti dovrebbero basarsi sugli stessi valori di inclusione e rispetto delle differenze che promuoviamo a parole. Ecco quindi i 5 punti a cui prestare attenzione, se vogliamo che la nostra comunicazione sia davvero accessibile.

– Scegliere le parole più giuste

Non esistono regole generali, esistono le regole che ci possiamo dare. Fondamentale per una comunicazione accessibile e inclusiva è la scelta condivisa di quali parole e quali modalità utilizzare per rendere il nostro contenuto comprensibile e comprensivo. Modalità che possono essere collezionate in un documento da condividere con tutta l’azienda, valide per la comunicazione interna e anche per quella esterna. 

– Alt Text, trascrizioni e sottotitoli

Un contenuto accessibile è quello che comprende anche l’eventualità che a fruirlo siano anche persone che utilizzano strumenti per la lettura di un testo digitale. Allora, i testi alternativi alle immagini, i cosiddetti alt-text devono essere “parlanti”, cioè devono contenere le informazioni che abbiamo voluto veicolare attraverso l’immagine cosicchè chi fruisce il nostro contenuto attraverso uno strumento di lettura vocale possa comprendere a pieno il significato. Allo stesso modo, è sempre buona prassi inserire le trascrizioni e i sottotitoli in tutti i video e, qualora utilizzassimo # composti, inserire sempre la lettera maiuscola all’inizio di ogni parola. 

– Attenzione alle emoji e ai font non proprietari

Le emoji che ci piace tanto usare sono ancora poco accessibili e poco inclusive. Non solo infatti non riescono ancora a rappresentare tutte le differenze, anche se a ogni release le nostre app preferite presentano sempre nuove possibilità; ma soprattutto non sono interpretabili correttamente dai sistemi di lettura vocale. Inoltre, non è detto che tutte le persone associno un significato univoco alle emoji, è sempre necessaria una spiegazione. Allo stesso modo, anche i font non proprietari delle piattaforme, possono risultare incomprensibili sia ai sistemi di lettura sia a persone neurodivergenti o ipovedenti.

– Le immagini

Come abbiamo detto all’inizio, ci sono due modi per rendere un contenuto non inclusivo né accessibile. Il primo è non tenere conto delle differenze e il secondo è rappresentarle male. Le immagini che scegliamo per rappresentare la realtà contribuiscono all’accessibilità e all’inclusione del nostro contenuto. Esistono delle banche dati gratuite di immagini alternative per rappresentare la realtà nella sua reale complessità: Disabled and here, raccoglie immagini di persone disabili; The Gender Spectrum Collection, raccoglie immagini di persone di generi diversi in ambienti di lavoro; infine, nappy e CreateHER immagini di persone di appartenenze e provenienze diverse impegnate in ambienti di lavoro e non.

– Un codice di condotta condiviso

Così come non è sufficiente trasformare il proprio logo in arcobaleno ogni mese di giugno per essere davvero inclusivi nei confronti delle persone appartenenti alla comunità LGBT+, allo stesso tempo è necessario che tutte queste scelte siano parte di un codice di condotta che sia espressione della posizione dell’azienda nei confronti di queste tematiche, sempre e in ogni circostanza.

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