Non è una questione di ufficio, ma di senso di appartenenza.
Se dovessimo riassumere in una frase quello che le aziende stanno vivendo oggi, nel 2025, sarebbe questa.
Nel pieno di un equilibrio ancora in cerca di stabilità tra lavoro ibrido, flessibilità e presenza, la vera sfida per le organizzazioni non è tanto dove si lavora, ma come ci si sente parte di un progetto comune.
Il senso di appartenenza, per anni dato quasi per scontato, oggi è messo alla prova da nuove abitudini, nuove aspettative e un mercato del lavoro in continuo movimento.
C’è chi lo percepisce come un’urgenza, chi lo sottovaluta, ma nessuna azienda può permettersi di ignorarlo.
Anche perché, al di là delle dimissioni più o meno silenziose (non solo Great Resignation, di cui ancora ci sono i risvolti ma anche Great Detachment), ciò che si rischia davvero è la perdita di identità collettiva. E senza identità, non c’è cultura aziendale capace di trattenere talenti o generare innovazione.
Cos’è il senso di appartenenza oggi e quanto influisce sulla talent retention
Sentirsi parte di un’impresa, di un progetto o di un team significa provare un attaccamento emotivo che porta a voler contribuire attivamente con il proprio lavoro e a condividere valori, visione e cultura dell’organizzazione.
Nel 2025 il senso di appartenenza non si costruisce più soltanto con rituali aziendali, benefit o iniziative di team building, ma nasce da un’esperienza lavorativa autentica, coerente e capace di far sentire le persone viste, ascoltate e valorizzate.
Un elemento chiave è l’inclusione. Quando l’inclusione è reale e non si limita a una semplice assimilazione, le persone percepiscono che l’organizzazione si prende cura della loro autenticà e del loro benessere.
Ciò si traduce in maggiore fiducia, engagement e affezione nei confronti del luogo di lavoro. Un recente report di Deloitte (“2024 Global Human Capital Trends“) sottolinea come il 68% dei lavoratori cerchi ambienti dove possa essere apprezzato non solo per le competenze, ma anche per i valori personali che porta con sé.
Il problema è che, secondo la ricerca “State of the Global Workplace 2024” di Gallup, solo il 23% dei dipendenti a livello globale si dichiara realmente coinvolto e connesso con il proprio ambiente di lavoro. Il 41% afferma di sentirsi emotivamente scollegato dal contesto professionale.
Questi dati indicano una disconnessione che va ben oltre la produttività e tocca il cuore dell’esperienza lavorativa: la mancanza di senso di appartenenza. Inoltre, uno studio di Qualtrics (“2024 Employee Experience Trends Report – Americas Edition“) ha rilevato che il 45% dei lavoratori considera le relazioni umane autentiche come uno dei fattori principali per rimanere in un’organizzazione nel lungo periodo.
In un mondo in cui il lavoro ibrido è la normalità e la presenza fisica non è più l’unico legante tra colleghi, il rischio di isolamento e disconnessione emotiva è concreto. Soprattutto nelle aziende in cui il senso di appartenenza si basava principalmente sull’ufficio come spazio fisico e non su un purpose aziendale condiviso.
Un altro aspetto da considerare riguarda le generazioni più giovani. I Millennial e la Gen Z, che nel 2025 costituiscono la maggioranza della forza lavoro in molti settori, mostrano una minore tolleranza verso ambienti poco coerenti con i propri principi e una maggiore predisposizione al job hopping.
Senso di appartenenza: come le aziende possono aumentarlo?
Cosa possono fare le aziende? Per ricostruire o rafforzare il senso di appartenenza, serve un cambiamento culturale profondo. Non bastano interventi spot: occorre rimettere al centro le persone, lavorare sulla leadership empatica, favorire relazioni autentiche e creare occasioni di connessione che vadano oltre il calendario delle riunioni. Anche la formazione può avere un ruolo decisivo, soprattutto se orientata allo sviluppo personale, alla crescita relazionale e alla consapevolezza di ruolo.
Avere una comunicazione aperta
Instaurare un dialogo che sia aperto e punti sulla trasparenza è uno dei modi migliori per creare senso di appartenenza. Questo infatti aiuta a creare un ambiente in cui le persone si sentono al sicuro, sanno cosa sta succedendo e non temono che possano esserci sorprese dietro l’angolo.
Se si danno continuamenti aggiornamenti su dove l’azienda sta andando, si fissano dei momenti in cui si condividono i successi, ma anche gli insuccessi, c’è una Intranet o una newsletter interna in cui trovano tutte le informazioni di cui hanno bisogno, tutto questo aiuta a creare davvero inclusione.
Puntare sul coraggio di dire e di fare
Connesso a quanto detto sopra, bisogna puntare su due tipi di coraggio tra tutti, come dice Annalisa Galardi nel libro “Il coraggio di decidere”, per creare senso di appartenenza.
Uno di questi è il coraggio di dire, che è ovviamente il risultato di una comunicazione aperta e condivisa. Se una persona si sente libera di poter esprimere la propria opinione, di dare il proprio feedback senza essere presa di mira o sentirsi da meno perché ha detto una cosa “poco intelligente” o che ha uno scarso riscontro, tutto questo creerà un forte attaccamento all’azienda. Dice infatti la Galardi nel suo libro: “Il silenzio non è sempre, infatti, espressione di consenso, ma spesso timore di esprimersi”.
L’altro tipo di coraggio che bisogna allenare è il coraggio di fare considerando l’eventuale fallimento come un metodo di apprendimento permanente che quindi non viene nascosto ma analizzato e valorizzato per quello che può insegnare.
In tutto questo un grosso aiuto può venire indubbiamente dal Business Coaching che permette di allenare competenze chiave.
Promuovere i legami sociali
Il calo di motivazione, spesso legato al calo di senso di appartenenza, diventa “gigantesco” quando è trattato individualmente. Cosa significa? Che se una persona sta attraversando un periodo down per motivi personali, ma anche legati alla tipologia di lavoro che porta avanti, spesso sono i gruppi a poterle dare nuova linfa.
Lavorare con persone che continuano a mantenere entusiasmo, che stanno apprendendo concetti nuovi, che trovano soddisfazione nel proprio lavoro può innescare una reazione a catena tale da portare una persona demotivata a riconsiderare quello che sta facendo e a trovare il suo perché. Oltre ad avere un aiuto nell’immediato.
Le aziende, pertanto, devono essere consapevoli di ciò e tradurlo nella pratica. Capire cosa crea disfunzioni in un team eventualmente e come correggerle, pensare a formare gruppi di lavoro che possano essere sì eterogenei, ma anche ben amalgamati, promuovere iniziative in cui le persone si possano conoscere come attività formative ad hoc sono solo alcuni modi per provare a superare il calo di motivazione.
Puntare sulla formazione e far crescere le conoscenze
La formazione svolge un ruolo fondamentale per creare senso di appartenenza ed è per questo che va progettata in modo consapevole e collaborativo.
Innanzitutto, può diventare il collante delle persone che magari non lavorano insieme ma che “conoscendosi” durante i corsi – magari facendo una pausa caffè o pranzo insieme – possono trovare nuovi stimoli e punti di contatto. Così come può diventare un modo per creare il senso di gruppo.
Questo può succedere con i corsi di lingua che, anche se frequentati in modalità one-to-one, non è detto escludano dei momenti formativi di gruppo come possono essere delle sfide, online o dal vivo, per creare engagement o la partecipazione di alcuni eventi in lingua organizzati dall’azienda.
La formazione ha quindi il ruolo di catalizzatrice per il senso di appartenenza aziendale e questo purché sia pensata e modulata sulla persona che la riceverà. C’è infatti quella formazione che viene erogata perché importante per le attività che si svolgono – quindi in ottica upskilling e reskilling – ma c’è anche quella formazione che può andare incontro alle aspirazioni di un dipendente.
Per fare un esempio: la persona ha una passione per il cinema francese? Perché non proporre un corso ad hoc per imparare la lingua e conoscere meglio i segreti dei film? Non sarà un investimento che porterà un riscontro immediato, ma se può rientrare in un programma di formazione a costo contenuto, avrà un’enorme ripercussione sul dipendente che si sentirà apprezzato e considerato. Anche per le sue passioni.
Entrare davvero in contatto con le persone
Quanto appena detto porta a entrare davvero con le persone della tua azienda, a capirne lo stato d’animo, a intuire cosa provano e come si trovano. Non è affatto facile ed è per questo che bisogna andare in due direzioni, sostanzialmente.
Da un lato prevedere, se possibile, continui incontri con gli HR, anche in maniera informale: davanti alla macchinetta del caffè, in pausa pranzo o chiedendo consiglio in merito a una competenza che quella persona ha. Questo oltre a progettare dei momenti più “istituzionali” per tastare la situazione.
Dall’altro anche i responsabili dei team dovrebbero creare un rapporto più diretto con i componenti e capire qual è la direzione sia come gruppo che individualmente si sta prendendo.
Si possono poi organizzare momenti più “ludici” come pranzi insieme fuori dall’ufficio, anche in località che non siano nelle vicinanze – e in quel caso prevedere più della classica ora di pausa -, aperitivi ecc… ma anche iniziative come partite di pallavolo, tornei di calcetto e altro. Tutte attività che aumentano il senso di appartenenza.
Creare una cultura di inclusività e appartenenza
Un sondaggio che qualche anno fa è stato fatto su LinkedIn, proprio su cosa fa sentire le persone parte dell’azienda, dava tra le risposte principali:
- essere riconosciuto per i miei successi;
- sentirsi a proprio agio nell’essere me stesso al lavoro;
- avere l’opportunità di esprimere liberamente le mie opinioni;
- sentire che i miei contributi alle riunioni del team sono apprezzati;
- sentire che la mia azienda si preoccupa di me come persona.
Se delle altre affermazioni abbiamo parlato, concentriamoci sulla prima: essere riconosciuti per i propri successi. Questo vuol dire non solo dare dei premi produzione, ma sottolineare quanto più possibile quello che la persona ha fatto, facendole vivere un momento di gloria. Alla fine se l’è meritato, perché non “festeggiarlo” per un po’?