In un mondo del lavoro in cui aumentano frustrazione e rassegnazione, sono necessarie nuove strategie HR che passano da: formazione continua e personalizzata, integrazione strategica dell’AI e modelli organizzativi basati sulle skill. Ecco cosa è emerso dalla nuova ricerca dell’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano.
C’era una volta la Great Resignation, poi è arrivato il Great Regret. Ora, secondo l’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano, siamo nel pieno del Great Detachment (grande distacco), una fase in cui aumenta il senso di frustrazione, rassegnazione e disconnessione tra i lavoratori italiani. E se solo il 10% degli occupati dichiara di “stare bene” nella propria organizzazione per quel che riguarda le 3 dimensioni del lavoro – fisica, relazione e mentale -, è evidente che ci troviamo davanti a un nuovo punto di rottura nel rapporto tra persone e lavoro.
La fotografia, chiara e nitida, è emersa durante la presentazione della ricerca dell’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano avvenuta il 13 maggio scorso nella sede dell’università nel quartiere Bovisa a Milano. Ricerca di cui anche Speexx è partner e che, non a caso, quest’anno si intitola “Tracciare la rotta del cambiamento: AI, nuove strategie e competenze per il futuro del lavoro”.
Ma il 10% di lavoratori che si sente bene al lavoro è solo uno dei tanti numeri che ci aiutano a capire in quale direzione sta andando il mondo del lavoro. Partendo dalla ricerca e da alcuni contributi emersi durante il convegno del 13 maggio, cerchiamo in questo articolo di mettere insieme alcuni punti salienti che possono interessare e far riflettere chi lavora nel mondo HR e non solo.
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Il mismatch delle competenze e il talent shortage ancora presente
Uno dei dati più evidenti riguarda il disallineamento tra le competenze richieste e quelle disponibili, ciò che gli Anglosassoni sono bravi a sintetizzare in un unica parola, forse anche un po’ cacofonica: mismatch. Cosa vuol dire in soldoni? Secondo i dati, tantissime skill non risultano adeguate al mercato del lavoro e 4 aziende su 10 faticano a trovare candidati idonei. Stando alla ricerca del Politecnico, infatti, si cercano persone che non si trovano, e si formano persone che non trovano lavoro.
Nel 2025, inoltre, un’azienda su due prevede di aumentare l’organico, ma il 78% fatica ad assumere, e in metà dei casi il problema è aumentato rispetto all’anno precedente.
Il cuore della questione? Sono proprio le competenze. Il mismatch tra domanda e offerta non riguarda la quantità, ma la qualità e la specializzazione dei profili. Le figure più difficili da trovare sono legate al mondo digitale: AI, Big Data, Cybersecurity. Circa una nuova posizione su quattro oggi riguarda proprio questi ambiti.
E così, molte aziende si vedono costrette a sviluppare le competenze internamente, abbandonando la ricerca esterna. Una necessità che trasforma la formazione da leva opzionale a motore strategico per la sopravvivenza. Il 10% dei lavoratori italiani necessita oggi di una riqualificazione urgente, perché le competenze attuali non sono più sufficienti o rischiano di diventarlo entro 3-5 anni. E il 32% teme che le sue competenze diventino presto obsolete, senza riuscire a ricollocarsi.
Ma c’è un altro dato che fa riflettere: più di 1 persona su 2 ritiene di possedere competenze utili in altri ruoli… solo che nessuno le sta osservando. Un potenziale inespresso, spesso ignorato, che grida la necessità di strumenti di mappatura più intelligenti e inclusivi.
Come invertire la rotta? Secondo Mauro Nori, Consigliere della Corte dei Conti e Capo di Gabinetto al Ministero del Lavoro, “serve orientare la formazione verso ciò che il mercato richiede, evitando che a guadagnarci siano solo i formatori”. Un cambio di paradigma che richiede apertura da parte del sistema universitario, sinergie con le imprese, e un ripensamento dell’intero ecosistema educativo.
“Il sistema universitario deve aprirsi al mercato, il piano industriale si fa su ciò che viene richiesto, non su ciò che l’imprenditore pensa che serva”.
Skill-based organization: cosa sono e perché possono essere la chiave per il futuro
Le skill-based organization rappresentano una possibile via: in queste realtà il benessere sale all’18% e l’engagement dei lavoratori schizza al 42% (rispetto al 17% della media), grazie a un’organizzazione centrata sulle competenze anziché su ruoli rigidi, gerarchie tradizionali e suddivisione delle responsabilità. Questo si riflette anche su altri dati: gli intender (ossia coloro che hanno intenzione di cambiare lavoro da qui ai prossimi 18 mesi) e i dimissionari passano dal 41% del campione al 36%.
Un approccio, come si legge nella ricerca che si basa su 3 caratteristiche base:
la “de-costruzione del lavoro”, ossia un modo diverso di organizzarlo basandosi sul fatto che le competenze dei dipendenti vengono abbinate in modo dinamico a compiti o progetti specifici;
l’analisi strategica delle competenze presenti nell’organizzazione guida la gestione dei principali processi HR;
la struttura organizzativa è, come dire, “flat”, vale a dire orizzontale e basata su team autogestiti che hanno autonomia e responsabilità nel portare avanti il loro lavoro.
La formazione personalizzata: una possibile risposta a malessere e incertezza
In un tale contesto, è evidente che un ruolo importante ce l’ha sicuramente la formazione, leva strategica per il mismatch, ma anche per creare organizzazioni che siano appunto basate sulle competenze. Oliver Albrecht, Senior VP e Country Manager di Speexx, ha sottolineato l’importanza di risposte personalizzate: “Due terzi dei lavoratori sono disponibili a responsabilizzarsi per il proprio skill set, chiedono aggiornamento continuo e il 70% sarebbe disposto a farsi remunerare per le proprie competenze”.
Anche se non è così semplice, emerge infatti una criticità tra tutte: “Solo il 39% delle aziende fa davvero un’analisi delle capacità e delle competenze”. Questo scollamento, secondo Albrecht, evidenzia una “forte resistenza al cambiamento e un attaccamento ai vecchi paradigmi”. La soluzione? Azioni di formazione “molto personalizzate” e un approccio olistico all’employee experience, che integri esperienze, processi e relazioni per creare percorsi su misura e aumentare l’engagement, anche laddove la propensione a dimettersi rimane alta (che scende, invece, al 35% nelle aziende skill-based).
La formazione deve quindi diventare strumento adattivo, dinamico, continuo, supportato anche dall’Intelligenza Artificiale.
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L’AI: grande promessa (ancora poco governata)
E l’Intelligenza Artificiale? La ricerca del Politecnico svela dati interessanti: il 45% delle aziende ha investito in AI per la Direzione HR, ma il 21% ammette di averlo fatto senza sapere se gli strumenti adottati fossero effettivamente abilitati dall’AI.
Nonostante il 55% delle aziende nell’ultimo anno abbia investito nelle tecnologie AI per supportare le attività lavorative e il 69% delle divisioni HR intenda aumentare gli investimenti nel 2025, l’utilizzo è spesso più operativo che strategico. Solo il 32% dei lavoratori ha utilizzato strumenti AI, principalmente per ricerca di informazioni, traduzioni e stesura/revisione di contenuti. Significativo il dato che il 50% dei lavoratori dichiara che questi strumenti non sono applicabili alle proprie attività.
Eleonora Lori, sales manager di Babbel for Business ha evidenziato come, con un ciclo di vita delle competenze sempre più breve, l’AI possa personalizzare i percorsi formativi e l’aggiornamento continuo. L’Intelligenza Artificiale permette, infatti, di analizzare dati comportamentali relativi all’apprendimento, rendendo i percorsi più adattabili ed efficaci. Nonostante ciò, le barriere all’adozione della digitalizzazione e dell’AI rimangono significative: costi elevati (44%), rischi legati alla sicurezza informatica e alla violazione delle normative (37% per entrambi), e una cultura della Direzione HR ancora poco consapevole delle applicazioni (29%).
Eppure, il potenziale è enorme: tra chi usa regolarmente strumenti di AI, il tempo risparmiato arriva a 50 minuti al giorno. Tempo che può essere reinvestito per attività a maggior valore aggiunto, o semplicemente per migliorare il proprio equilibrio vita-lavoro.
“Le aziende italiane stanno investendo in AI, ma le Direzioni HR faticano ancora a governare questa trasformazione”, ha aggiunto Martina Mauri “a cominciare da una scarsa comprensione di come i lavoratori la stiano già utilizzando nelle loro attività, con il rischio di assistere alla diffusione di nuovi strumenti e comportamenti senza una chiara strategia e senza capacità di guidarne gli impatti. L’Intelligenza Artificiale, da semplice strumento per migliorare efficienza e qualità del lavoro dei singoli, deve essere concepita come strumento strategico per riprogettare il lavoro, automatizzando attività, creando efficienza, ripensando ruoli, competenze e modelli per liberare tempo ed energie, con minori carichi di lavoro e mansioni più attrattive e sostenibili”.
La Gen Z e la richiesta di autenticità
Le nuove generazioni non chiedono più soltanto un impiego, ma un’esperienza che abbia senso. Il lavoro deve integrarsi con la vita, non dominarla. Le aspettative sono chiare: trasparenza salariale, opportunità di crescita reale, supporto al benessere e strumenti digitali intuitivi e accessibili.
Progetti come A2A Life Caring – vincitore del premio “Soluzioni di welfare a sostegno del benessere” – raccontano cosa si può fare: congedi extra, rimborsi per spese scolastiche, formazione manageriale per valorizzare la genitorialità. Perché non si tratta più di “conciliarsi”, ma di co-esistere.
Futuro del lavoro: come affrontare il cambiamento?
“Tra i lavoratori italiani si rileva una crescente frustrazione, attribuibile alla percezione di instabilità del mercato del lavoro, accentuata da conflitti e crisi globali e da retribuzioni spesso inadeguate al costo della vita”, ha afferma Mariano Corso, Responsabile scientifico dell’Osservatorio HR Innovation Practice “Così, a fianco al benessere e all’equilibrio, che continuano a essere le priorità delle persone, si sta affiancando una crescente ricerca di sicurezza e protezione. In questo contesto, la sfida principale per le Direzioni HR nel 2025 è lavorare sul senso e il significato del lavoro, cercando di ovviare al senso di precarietà crescente”.
La presentazione dell’Osservatorio HR Innovation Practice ha quindi messo a nudo le complessità del presente, ma ha anche indicato la rotta. Le aziende devono investire in una formazione mirata e continua, abbracciare un approccio skill-based che valorizzi le persone, coltivare un ambiente di lavoro che metta al centro il benessere e il senso di appartenenza, e integrare l’Intelligenza Artificiale non come semplice strumento, ma come leva strategica per la trasformazione.
Come Speexx, crediamo fermamente che la personalizzazione dell’apprendimento e lo sviluppo continuo delle competenze siano fondamentali per navigare in questa nuova era. La sfida non è da poco, lo sappiamo, ma le opportunità per chi saprà interpretare e guidare il cambiamento valgono sicuramente tutti gli sforzi.
D’altra parte, la crescita personale va di pari passo con il benessere, aspetti, entrambi, che possono essere forse l’unico vero antidoto al Great Detachment.
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